di Savino GALLO, 01/04/2020
L’emergenza prodotta dal diffondersi del COVID-19 ha portato alla sospensione di oltre un terzo delle attività imprenditoriali italiane, costringendo quasi otto milioni e mezzo di lavoratori dipendenti a stare a casa. A fotografare lo stato attuale del tessuto produttivo italiano è la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, che ha elaborato i dati forniti da oltre 4.400 professionisti attraverso la compilazione di un questionario.
Il quadro che emerge è quello di un’Italia sostanzialmente ferma, senza grandi differenze territoriali tra Nord, Centro e Sud. In tutto, i lavoratori costretti a stare a casa sono 8.434.000 (il 65,8% del totale). Di questi, 5.717.000 sono stati direttamente interessati dalle restrizioni imposte dal Governo con i DPCM dell’11 e del 22 marzo. La restante parte (2.717.000 dipendenti) è in ferie forzate o bloccata dalla sospensione volontaria dell’attività da parte del proprio datore di lavoro. Non ci sono particolari differenze territoriali: rispetto al dato nazionale del 65,8%, al Nord ci si ferma al 64,7%, mentre al Centro e al Sud si registra una percentuale rispettivamente pari a 66,8 e 66,6%.
Quanto, invece, alle imprese, quelle sospese per effetto dei provvedimenti del Governo rappresentano circa il 50,5% del totale, a cui si somma un 15% di attività che hanno sospeso o chiuso volontariamente per evitare il rischio contagio. Il dato nazionale è pari al 65,9%, con la percentuale più bassa che si registra al Sud (64,9), seguito da Nord (65,5) e Centro (66,6). Insomma, uno “stallo occupazionale” generalizzato, anche perché delle imprese ancora in attività solo una su tre continua a lavorare come prima, mentre i restanti due terzi segnalano comunque un rallentamento.
Posto che l’emergenza è arrivata in un momento in cui si stava già affacciando un rischio di recessione, le previsioni dei consulenti del lavoro sulla futura ripresa non sono delle più rosee. La maggioranza dei rispondenti (40,9%) stima che il rischio di chiusura possa riguardare tra il 10 e 20% delle attività, ma c’è anche un 40,5% che pensa che si possa andare oltre il 20% di chiusure definitive. In questo caso, ci sono differenze territoriali più marcate. Rispetto al tessuto produttivo del Nord, i professionisti sono più ottimisti, mentre per Centro e Sud sale la percentuale di coloro che prevedono chiusure dei battenti per oltre il 20% delle attività.
Così come si registrano differenze per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro nell’emergenza. Dei 4.384.000 dipendenti che continuano a lavorare (34,2% del totale), poco più della metà (2.205.000) lo fa principalmente o in via esclusiva da casa, mentre l’altra metà (2.179.000) continua a recarsi in sede.
In generale, le aziende italiane hanno cercato di adottare un mix di misure, tra lavoro in presenza, lavoro da casa e ricorso a ferie e permessi, “ridistribuendo i costi dell’emergenza sull’intera comunità aziendale”. Tale tendenza ha caratterizzato soprattutto le imprese del Nord (51,3%), rispetto a quelle del Centro (42,1%) e del Sud (39,6%). Ferie e permessi sono stati utilizzati più diffusamente al Centro (33,4%) e nel Meridione (30,5%), mentre il Nord fa registrare la percentuale più alta nel ricorso allo smart working (13,2%).
Il quadro tracciato dalla ricerca lascia presumere che possa esserci un “diffusissimo” ricorso agli ammortizzatori sociali. Secondo la maggioranza dei consulenti del lavoro (63,5% dei rispondenti al questionario), più del 75% dei dipendenti delle aziende private sarà interessato da almeno una delle misure straordinarie messe in campo dal Governo.
A questo proposito, però, i professionisti denunciano diversi casi di “comportamenti anomali” da parte delle associazioni sindacali, che si sostanziano nell’applicazione di istituti contrattuali non coerenti, richiesta di tesseramento o del pagamento di oneri per i servizi resi.
“Intoppi –ha commentato Marina Calderone, Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro– che vanno ad aggiungersi alle difficoltà riscontrate in questo delicato momento”. Tra queste, “i rallentamenti del sito dell’INPS, preso d’assalto per le richieste di ammortizzatori sociali ma anche dei bonus previsti dal DL «Cura Italia» (i problemi di accesso al portale sono stati denunciati ieri anche dall’Associazione nazionale commercialisti, ndr), e la necessità di predisporre un’informativa sindacale che non è utile, vista la causale «Covid-19 nazionale» adottata per far fronte all’emergenza”.
Per questo, come denunciato già nei giorni scorsi, i consulenti del lavoro lanciano l’allarme sul possibile allungamento dei tempi per l’erogazione da parte dell’INPS degli importi derivanti dall’accesso agli strumenti di sostegno al reddito. “Le procedure attualmente previste dalla normativa di riferimento non permetteranno tecnicamente di arrivare entro il 15 aprile (data annunciata dal Governo, ndr) alla liquidazione delle somme. Urgono –ha concluso Calderone– semplificazione e rapidità”.
Da Eutekne – 01/04/2020